In un remoto angolo dell’Appennino… la pieve di San Valentino!

San Valentino 01Ogni volta che mi trovavo nelle vicinanze di Tredozio, pensavo con curiosità a quell’angolo del territorio che ancora non aveva esplorato nel quale, invece, mi ero imbattuto molte volte da un punto di vista documentale e di ricerca.
Infatti il fratello del mio trisnonno, Sebastiano Fabbri, aveva preso in gestione prima Borsignalino, e poi il Molinetto di Minosse attorno alla metà dell’Ottocento, entrambi poderi molto vicini a Tredozio paese, ma appartenenti alla parrocchia di San Valentino

L’antica chiesa di San Valentino, di cui altri miei colleghi ricercatori mi hanno spesso parlato, è infatti collocata in una parte del territorio che non si trova subito dietro Tredozio. Quando ho intrapreso questa ricerca avventurosa ho preso una stradina che si è rivelata essere molto più lunga di quello che mi aspettassi. Mentre la percorrevo, pensavo a tutti quei contadini o signori che si ritrovavano nel corso dei secoli scorsi a percorrerla per raggiungere l’antica pieve. Immagino quanta forza e impegno abbiamo dovuto perdurare per raggiungere quel luogo, che non solo era un punto di riferimento importante a livello religioso, ma ovviamente, essendo stata anche una sede importante per il territorio, anche un ente amministrativo vero e proprio, almeno dal Cinquecento. Ma la sua storia è decisamente più antica. Lo studioso Repetti, nell’Ottocento, segnava il 562 come anno della sua costruzione, e ne citava una ricostruzione attorno all’anno 1000, ma mi pare di aver capito che ci sono stati diversi interventi sull’edificio. Si dice anche che ci fossero più costruzioni attorno a questa Pieve, delle quali rimane ben poco. Anzi, l’impressione è che il luogo sia decisamente isolato. Il tempo ha cambiato l’antico assetto della zona. La lunga strada che porta a San Valentino è intitolata al Battaglione Corbari, un gruppo di partigiani che subì un feroce attacco nell’estate del 1944 nei pressi di un podere poco distante dalla Chiesa.

San Valentino 02Arrivo a San Valentino. La Chiesa sembra quasi adagiarsi su delle collinette che la circondano, quasi come in un abbraccio. Alcuni elementi architettonici mi ricordano uno stile ben preciso, quasi medievale. Non sono un esperto, ma questa è l’impressione che mi fa. Appare subito come un luogo di infinita tranquillità e pace. Una grande statua di Cristo con le braccia aperte sembra completare questa mia prima impressione, confermandola. È una giornata di primavera, e questo contribuisce ulteriormente a darmi un’impressione estremamente positiva di questo luogo, dove le storie di antichi signori e lavoratori di terre si intrecciano da secoli e secoli.

San Valentino 03Venire qui nel silenzio, e in una tiepida giornata di sole, può farti sentire delle energie che la sola foto non può richiamare. Trovarsi lì in quel momento significa ascoltare quello che la storia ha da dire. E se sono andato lì e ci sono andato in quell’esatto momento, significa che dovevo recepire qualcosa, conoscere qualcosa, arricchire il mio bagaglio culturale e spirituale.



L’immagine in evidenza proviene dal Registro di Censimento del 1841 al sito http://www.antenati.san.beniculturali.it/ 

In viaggio verso… S. Barnaba in Gamogna

img_60991Antichissimo Eremo fondato da San Pier Damiani nel 1053, il complesso di Gamogna sovrasta i monti della Valle Acerreta e da lì domina il panorama che lo ha reso un unico ed ammirabile punto di riferimento.
Il percorso a piedi è lungo e tortuoso, e non è affatto facile in alcuni tratti. Chi si avventura verso questa destinazione lo fa con calma e con pazienza, consapevole che la ricompensa sarà grande, là in quell’oasi di pace e tranquillità che finora avevo visto solamente in fotografia.

Raggiungere quel luogo non appaga solo il mio senso culturale e spirituale, ma ha per me un valore aggiunto, dato dal ruolo che ricopre nella storia della mia famiglia. Infatti, è nella Chiesa dedicata a San Barnaba che i miei quinquesavoli Domenico Fabbri e Maddalena Montuschi si sposarono nel 1786 circa. La famiglia Montuschi era giunta a Gamogna da Maradi, nei primi anni ’40 del Settecento, e qui era nata la mia Maddalena il 23 febbraio 1757, in località Casa Nova. Come da tradizione, quindi, lo sposalizio deve aver luogo nella Parrocchia di residenza della sposa. Purtroppo non esistono registri in grado di identificare l’esatta data delle nozze Fabbri-Montuschi, ma esistono invece tracce del matrimonio che riguarda la generazione successiva dei Fabbri. Infatti il loro figlio Giovanni Battista Fabbri sposerà sempre a Gamogna, in questa bellissima Chiesa, Francesca Pagliai.
I miei quadrisavoli convolano a nozze il 17 giugno 1816. Due matrimoni, a distanza di trent’anni ma entrambi incastonati nelle radici del mio albero genealogico. Metto piede in questo luogo sacro, ben consapevole che qui sono già passati il mio cognome ed il mio sangue, e per ben due volte.

san-barnabaNon è una Chiesa come le altre. Si nota subito che ha una storia antica, e che grazie alla mano dell’uomo oggi è ancora qui a testimoniare la sua esistenza. La storia che porta fra le sue pietre è quindi secolare, ed attraversa fasi di  fasto e prosperità a momenti di decadenza e di abbandono. Infatti è nel secondo dopoguerra che Gamogna giunge al suo momento cruciale, poiché l’abbandono delle montagne da parte dei suoi abitanti lascia la Chiesa e tutto il costrutto monastico all’incuria del tempo e delle intemperie.
Solo negli anni ’70 Don Antonio Samorì inizia a proporre interventi di ristrutturazione e risanamento; dopo un primo periodo di inascoltate richieste, egli riesce a portare avanti il restauro che porta Gamogna allo splendore di un tempo, grazie anche all’ingegner Bruno Maestri.

Raggiungere Gamogna, specie attraverso stretti sentieri corrosi e di difficile percorrenza, è un’avventura con finale a sorpresa. La vista dell’Eremo appaga la vista e ricorda all’uomo contemporaneo che qui, proprio in questi luoghi che sembrano dimenticati, si è fatta la storia della Valle Acerreta.

Le lettere dal fronte di Manetto Manetti

manetto-manettiVillanova di Bagnacavallo. Nel 1915 Manetto Manetti ha 18 anni compiuti e va per i 19… Il suo mestiere è quello del birocciaio, ed essendo il maschio più grande di dieci fratelli e sorelle, su di lui ricade l’importante compito di disegnare, giorno per giorno, il futuro della sua famiglia. Più grandi di lui ci sono solo le due sorelle Vittorina (la maggiore) e Laurina. La prima è fidanzata con Pietro Minguzzi, detto Pirì, mentre la seconda è già sposata e vive a Mezzano con la sua nuova famiglia. La chiamata alle armi lo catapulta in zona di guerra, strappandolo alla sua quotidianità, dal confronto costante con la sorella maggiore e dalle simpatie verso alcune ragazze del paese, in particolare “la cugina della Chilina”, forse una fidanzata in via di ufficialità?
La corrispondenza fra Vittorina e Manetto è fitta, contraddistinta dall’ansia per le sorti ignote di Pirì, che si dice sia stato fatto prigioniero e di cui non si hanno notizie. Al contempo, Manetto interagisce da lontano col contesto famigliare, riprendendo le sorelle più piccole quando si fanno gli affari suoi, aprendogli la posta e scoprendo le sue corrispondenze con alcune ragazze, salutando in modo affettuoso il fratellino di sette anni Crisostomo, detto Giaza, che diventerà parroco da adulto, e informandosi costantemente sui suoi famigliari ed amici.
In questo articolo dell’anno scorso ho delineato in maniera piuttosto generica la storia di Manetto, ma ora lascerò che siano le lettere, e solo queste, a dar luce a questa storia. Ringrazio Cristina, la mia cugina di secondo grado, per avermi permesso di sfogliare queste preziose testimonianze che credevo perdute per sempre.

03Manetto alla sorella maggiore Vittorina
11 agosto 1916
Cara sorella,
ti mando questa cartolina per darti mia notizia. Ti dirò pure che io sto bene di salute, e così voglio sperare anche di te. Sento dalla lettera che Pietro (Minguzzi, fidanzato di Vittorina; ndr) parte e va in Albania. Non avvilirti, che se arriva a scapparla dal mare, dopo è nel sicuro: il più pericolo è in mare, dunque di mare hanno otto ore da fare, e dopo è più sicuro che in questi fronti.
Sarà un po’ troppo lontano da casa, ma poi la vita nel sicuro. Quando ci dovevo andare io, mi dispiaceva solo perché era troppo lontano, ma per essere sicuri si è più sicuri, che io ho parlato con della fanteria che veniva da là, era uno di Bagnacavallo. Dunque fatti coraggio, che lui è nel sicuro.

Manetto alla sorella maggiore Vittorina

29 novembre 1916

Oggi stesso, qui dove mi trovo io, ho trovato il reggimento del cugino Antonio. Sarebbe poi il 5° reggimento nel quale ho trovato un mio primo compagno di Santerno, e vedrai che il bovaro lo conosce, è il figlio di Brò. Lui mi ha detto che è stato anche con Antonio (Manetti, figlio di Clodoveo e cugino di Manetto; ndr) e con Zoli (Arturo, marito di Lauretta Manetti, sorella di Manetto; ndr) e qui è venuto assieme con Dercisio e Gnoti di Tribulé. Loro si sono lasciati quel giorno che sono rimasti prigionieri, ed è rimasto lui solo. Non puoi immaginare che contentezza ho provato nel vederlo. Da principio non l’avevo conosciuto, ma dopo ci siamo conosciuti. Ho sentito di Pietro che si trova a casa sua, io non posso venire per ora.

01Manetto alla sorella maggiore Vittorina
14 agosto 1917

Ora mi trovo in un paesetto, e si sta molto bene, fuori da tutti i pericoli. Io sto bene e così spero che ne sarà anche di te stessa. Avevo scritto a casa, poi ti avevo mandato l’indirizzo nuovo, ma sarà meglio che mi scrivete con l’indirizzo della batteria perché viene già un mio compagno e mi porta la posta.

Manetto ai genitori Domenico e Adele

1 ottobre 1918

Carissimi genitori, approfittando dell’occasione vi mando notizia su Innocente. La mia salute è ottima, e come spero che ne sia il simile anche di voi tutti in famiglia. Appena ricevuto questa mia, datemi subito risposta, perché non ho ricevuto vostre notizie da un pezzetto. Ho ricevuto solo la lettera del 12 dove mi diceva che era ammalata la nonna, ma che era in via di guarigione. Spero che sarà già guarita e che non ci sarà più nessun malato nella nostra famiglia. Se per disgrazia ce ne fosse, vi prego avvertitemi subito che desidero sapere tutto, e se vi dovesse accadere la disgrazia di ammalarvi uno di voi, lo sapete come dovete fare. Però questo non voglio che avvenga mai, perché mi recherebbero molto disturbo. Speriamo che la fortuna si prosegue sempre ottima.

04Innocente (fidanzato della sorella di Manetto, Felicina) a Vittorina
24 ottobre 1918

Carissima Vittorina e famiglia,
credo che avrà scritto ieri Manetto raccontandovi ciò che gli accade. In caso non aveste avuto sue, vi avverto io anche a nome suo, che ieri andò all’ospedale: è stato preso da un po’ di febbre come tanti altri della batteria. Pregovi non appassionarvi, che non è cosa grave. Non sono di quelle febbri spagnole. Parono giudicate febbre prodotte da un gruppo d’aria cattiva. Durano qualche giorno, poi spariscono. Anzi, i primi colpiti non li hanno nemmeno mandati all’ospedale, ma adesso vedendo che non terminano mai, appena hanno un po’ di febbre li mandano all’ospedale. State pur sicuri che passato 4-5 giorni Manetto sarà di nuovo alla sua batteria. Non ha nemmeno preso nulla della sua roba. […]

Innocente a Caterina, cugina di Manetto
4 novembre 1918

Carissima Caterina,
conosco quanto è mio dovere dare la triste sorte del povero Manetto, ma non ho il coraggio di avvertire la sua infelice famiglia. Scusandomi tanto, rivolgo a voi come sua cugina di fare il meglio mezzo per dare a loro avviso che questa mattina alla batteria è venuto l’avviso di morte. Si trovava in un ospedale vicino a Vicenza, parmi di nome il paese Paolaro. Andò all’ospedale 13 giorni fa con febbre, quali non erano nemmeno accusate febbre cattive, e nemmeno gli era stato trovato altro. La sua causa di morte non so di preciso quale sia stata, ma probabilmente di quella febbre che ormai ha sconvolto tutto il mondo. Sapete già che la guerra nel nostro fronte è già finita quindi immaginerete dei gridi di gioia che vi potevano essere da noi. Qui la bella notizia è giunta questa notte, ma siccome si dormiva si è fatto poca mossa. La mattina poi, potete pensare, ma io appena alzato mi hanno chiamato per comunicarmi di Manetto e, saputo ciò non ho potuto avere quel grido di gioia. Mentre i miei compagni cantavano, io ho dovuto piangere come mi fosse morto un fratello. Povero Manetto, era così buono e mi era tanto fedele amico che mai potrò dimenticarlo. […] Avrei pure bisogno di chiederci scusa per averli lusingati dicendogli che stava bene, invece poverino… Diranno che non volevo dirci nulla, ma proprio non sapevo nulla: è stata per me pure un’improvvisata benché triste.

Le immagini proposte non fanno da riferimento alle lettere in questione, ma provengono comunque dal materiale di corrispondenza della Prima Guerra Mondiale della famiglia Manetti.

Gli inquieti spiriti e l'improbabile intervista ad Alessandro Bonforte

ilCantodegliInquietiSpiritiIl canto degli inquieti spiriti” è uscito da pochissimi giorni. Il mio nuovo romanzo, disponibile su GoWare (clicca sul nome per visualizzarlo) è disponibile in versione elettronica, cartacea o audiolibro, fa parte della collana Pesci Rossi ed è inserito nel genere categoria Storia.

Inizio quindi a parlarvi del mio libro presentandovi il suo protagonista principale. Alessandro Bonforte, è nato nel dicembre 1896 in un paesino della provincia di Milano. Figlio di Ranieri Bonforte e di Filippa Manfredini, è cresciuto nelle vicinanze del capoluogo lombardo per tutta la sua vita. Anziché descrivervi io stesso questo singolare personaggio, ho pensato bene di rivolgergli alcune domande, così che sarà più interessante e conciso ogni dettaglio che vorrà condividere con voi.

Dunque, Alessandro, di cosa parla questo romanzo che ti vede protagonista?
Difficile a dirsi. Potremmo sicuramente stabilire che non c’è una definizione assoluta, né di me, né del mio passato, né dei miei pensieri. Certo, ci sono momenti chiave, ma la storia non è lineare, non segue un filone tradizionale ed è difficile riassumerla in un solo concetto. Le vicende della guerra sono però il punto cruciale, di svolta, rispetto ciò che ero e ciò che sono divenuto.

Puoi essere più preciso?
Certo. Vedi, la mia situazione famigliare già era precaria, poiché mio padre aveva abbandonato me e mia madre poco prima della guerra, ed io avrei dovuto far fronte a tutti i suoi debiti. Per fortuna in quel periodo ho anche conosciuto Michela, che è stato l’unico barlume di speranza e gioia, dato che di lì a breve me ne sono capitate di tutti i colori.

viaggioQuali luoghi tocca il viaggio che si verifica all’interno del libro?
Si tratta di un viaggio mentale, fra ricordi, momenti cancellati che vengono recuperati, frammenti, scorie. Ma c’è anche uno spostamento vero e proprio, su strada ferrata. Mi muovo da Milano e devo raggiungere Firenze, ma nel mentre faccio una sosta a Bologna perché ci sono persone con cui devo parlare, i genitori di un mio buon amico che è caduto in guerra.

BonforteChe ricordi hai del tuo paese natale?
Sono cresciuto in un paesino della periferia milanese, di quelli con tanti sobborghi, la piazzetta dove tutti si riuniscono e si conoscono, i negozietti, i mercanti. Mio padre era un mercante di stoffe e conosceva tutti in paese, eravamo quasi un punto di riferimento per la comunità e si stava come in una grande famiglia. Gigi e Bartolo erano i miei amici più stretti, ma tutto si è lentamente disgregato nel tempo e probabilmente anche in questo caso è colpa della guerra.

Parlaci del rapporto con Michela.
Si tratta di un amore a prima vista, sbocciato in modo inconsueto in una notte in cui l’ho soccorsa per strada, dopo aver visto che non se la passava molto bene. Veniva da un altro paese e si era trasferità lì da poco tempo assieme ai suoi famigliari. Ci siamo frequentati e poi ci siamo fidanzati, ma la mia partenza ha cambiato tutto.

Ci sono scene di guerra in questo libro?
Non in senso stretto. Non descrivo la guerra in sé ma l’effetto che ha avuto sulla mia famiglia, su di me, così come sui miei commilitoni. Sì, descrivo alcuni di loro, in particolare il figlio di un barbiere che stava simpatico a tutti, Sabatino. Impossibile raccontare quella fase della mia vita senza mescolarla con i ricordi della quotidianità nelle trincere, le battaglie, gli spostamenti, i sacrifizi.

Cosa puoi rivelarci senza dire troppo dell’epilogo della tua vicenda?
Che la guerra crea divisione, e che il dolore non sempre sa unire ma il più delle volte divide. Nella mia storia si intrecciano anche altri avvenimenti, frutto delle mie esperienze di vita, anche in famiglia. Hanno avuto un ruolo importante il rapporto fra mia nonna Caledonia e mia madre Filippa, così come la fuga di mio padre Ranieri, che è scappato dai debiti. Il libro è un percorso di studio del mio passato personale, gli inquieti spiriti sono le emozioni che io non riesco a lasciare andare, le testardaggini di cui sono e siamo spesso schiavi.

Bene, altro proprio non è possibile aggiungere. Sarà il libro a rispondere ad ogni vostro quesito… “Il canto degli inquieti spiriti” è acquistabile in ogni store.
Visita la pagina di questo sito dedicata all’opera:
Il canto degli inquieti spiriti
Oppure clicca sull’immagine sottostante per visitare il sito di goWare dedicato al romanzo “Il canto degli inquieti spiriti”. Qui il libro su Amazon, qui su iTunes.

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Ricordo come… – Raccolte di memorie di altri tempi

ricordoFra nomi di battezzati, sposi e defunti, spesso il registro parrocchiale, vero e proprio strumento amministrativo, conservava anche pensieri dei parroci dedicati ad eventi che accadevano in quel momento nella loro parrocchia o nelle zone limitrofe. Sono, spesso, frasi brevi che vengono segnate quasi come se si scrivesse in un diario, tenendo a mente che forse, in futuro, possono essere utili a chi le leggerà.

Ho pensato che fosse interessante leggere alcune di queste annotazioni, che sono davvero una finestra sul passato. Iniziamo questa serie di curiose riflessioni partendo da ciò che più comunemente viene da annotare, ovvero le condizioni metereologiche. Dal libro di una parrocchia montana, leggo memorie (così vengono definite) di diversi tempi. Per esempio, il 25 maggio 1635 si parla di una nevicata, così come il 9 e 10 di giugno del 1688, quando venne riportato che “vi stette su alberi ed in terra delle giornate“. Ciò può essere ricollegabile a questo articolo di meteogiornale.it, in cui si sottolinea la rigidità delle condizioni climatiche di fine Seicento.
Seguono altre date, con informazioni simili, sino al 1738, quando il parroco di allora intervenne e sentenziò: “Le sopraddette cose furono giudicate scioccherie poiché d’aprile quasi ogni anno succede, e di maggio spesse volte“. Io credo che queste memorie in realtà servissero più che altro a fare da dato statistico, in una società come quella montana, dove appunto le condizioni metereologiche erano quantomeno più imprevedibili e sulle quali si basava l’abbondanza o meno del raccolto, fonte della ricchezza locale.

In un’altra sede, in un altro libro, leggo: “Ricordo come dal dì 14 marzo 1802 in cui si fece una neve spropositata fino alla metà di ottobre del suddetto anno e seguì una siccità tale che la terra si bagnò in modo da poter lavorare, ma solo fra due o tre volte in questo tempo venne piccole pioggerelle che rinfrescarono soltanto la pula (involucro dei chicchi dei cereali e di altre piante che si stacca durante la trebbiatura, e che si adopera come foraggio), né si poteva macinare che a stento. La raccolta dei viveri vi fu in abbondanza, ma da luogo a luogo sufficiente.

Nello stesso libro, le parole che precedono questa descrizione sono ancor più vecchie, e si narra del rifacimento di parti della chiesa, dell’elezione di un nuovo parroco e di tutto ciò che appare come normale amministrazione. Ma fra queste memorie c’è anche spazio per eventi che hanno segnato l’epoca in questione. Fermiamoci quindi al 1693: “Ricordo come del 1693 alli 19 marzo nel venerdì la mattina su l’ore 14 nel tempo che il Padre Predicatore celebrava la S. Messa venne un terremoto e s’aperse **serò la Chiesa dal tetto di magnesa che le travi uscirono dal muro, e per la Dio gratia ne seguì mal nessuno, solo che per riaggiustare la Chiesa c’andò la spesa sovra scudi 100.

Leggo un altro viaggio nel tempo, questa volta in una parrocchia dove si condividono notizie sull’epidemia di colera del 1855 e sulla reazione della popolazione: “ (…) il giorno che sopra, sulla sera, vennero da ogni parte fedeli con candele per assistere alla processione di penitenza onde ottenere grazie e benedizioni e la liberazione dal flagello. Terminata la Sacra funzione, tutti lasciarono le candele e regali, e per più di un mese stettero giorno e notte accese al Sacro altare.”

Ma ci sono anche altre fonti che aiutano a viaggiare nel tempo. Le lettere sono una fonte di memoria ineguagliabile, perchè oltre al dato in sé racchiudono spesso anche un’opinione ed una presa di posizione su fatti, persone e cose. Questa lettera (non datata, forse solo una malacopia dato che si interrompe senza concludersi) ma che spunta da vecchie pagine di un registro, dev’essere almeno del Settecento ed è una corrispondenza fra due fratelli. Ipotizzo che chi scrive sia un parroco, e che questa missiva fosse una risposta a richieste di sistemazione lavorative di parenti o a richieste di prestiti. In fondo il parroco godeva di un supporto economico di base da parte della Chiesa, e chissà quanti si sono rivolti al prete di paese in periodi di magra. “Nella casa dov’è un buon dottore o un ricco prete, non si sente né fame né sete”, si diceva. Leggo:

Con poche righe io rispondo alla vostra. Dite alla Filomena che io m’adatto all’uno ed all’altro partito. Se ella cerca un sussidio, altro che poco non posso dare perché i denari sono finiti; e chi li ha avuti? Tutti lo sanno; è finita la cuccagna con questi taglioni. Sono più di sei mesi che Angiolino non fa il gran niente, e nemmeno è capace di andare a Forlì, sempre spese sopra spese.”

Impossibile non immaginare vecchi abiti, modi di dire stranieri al nostro orecchio, atmosfere svanite nel tempo. Le testimonianze della vita di tutti i giorni sono sempre un metodo intrigante e una conoscenza che ci aiutano a vedere la continuità del tempo, ci insegna contesti, ci mostra la memoria.

Immagine in evidenza

In viaggio verso… "Il Bagno"

prospettivaAll’inizio di questa estate ho fatto grandi progressi nella ricerca dell’origine del mio cognome. Fermo da troppo tempo al Giovanni Battista figlio di un Giovanni Battista nato attorno al 1720, non avevo altre tracce o intuizioni da seguire. Poi ho studiato le carte e le documentazioni legali della zona a sud di Tredozio, in particolare dei territori di Ottignana, dove so che i miei antenati hanno vissuto nel corso di buona parte del Settecento.
Ecco che, quindi, un documento importantissimo mi spiega i passaggi di proprietà di un podere chiamato “Il Bagno“, posseduto in comproprietà fra il signor Lorenzo Passerini di Firenze, e Vincenzo di Benedetto Fabbri, definito in molti casi semplicemente come “Vincenzo di Benedetto dal Bagno” in luogo del cognome Fabbri. A partire da quel periodo di metà Seicento, vengono registrate tutte le modifiche e le successioni che vedono susseguirsi generazioni di Fabbri, fino a raggiungere quelli che avevo rintracciato attraverso le mie vecchie ricerche.

 

catasto

Immagine tratta dal piano territoriale del coordinamento provinciale del Comune di Tredozio

Ma veniamo al luogo in sé: le mappe del Catasto Toscano mi mostrano dove si trova con precisione, e con mia sorpresa scopro che non è affatto lontano dagli altri luoghi, quelli che i Fabbri abiteranno nel Settecento. Quell’antico casolare prende il nome dal fosso Bagno, che dà il nome anche a quella vallata e che si presenta come snodo cruciale fra diversi poderi della zona. Per arrivarci basta scostarsi dalla provinciale che unisce Tredozio a San Benedetto in Alpe e si seguono tutte quelle casine, casone, casupole che hanno segnato la vita di quei luoghi (fra questi un podere importante chiamato “Le Fabbriche“, antica proprietà e residenza di altri Fabbri, coi quali ancora non ho trovato un nesso di parentela). La strada arriva ad un punto dove non è concesso accedere con veicoli, e così mi avvicino a quel luogo a piedi. Ho la sensazione di entrare in un bosco incantato, dove tutto pare fermo da secoli e dove gli insetti danzano al ritmo del vento

podereBagnoSono in corso lavori di restauro, volti a rendere abitabile la struttura a comitive che la adotteranno come sede nel corso delle loro escursioni.

 

L’emozione è simile a quella provata in altre occasioni, quando visitai la casa abitata dai miei bisnonni e trisnonni, ma questa volta sto toccando radici più profonde, ed il mio viaggio nel tempo si è spostato di qualche secolo più in là. Fra le altre cose, questa è la prima volta in cui i Fabbri risultano proprietari di un immobile e non semplici coloni affittuari, il ché mi suggerisce che si sono svolti eventi negli anni seguenti che hanno determinato una caduta o una perdita di status sociale a scapito dei miei antenati. So che a metà del Settecento i tre fratelli Fabbri (il mio sestosavolo Battista ed i suoi fratelli Giovanni e Giuseppe) sono ancora comproprietari con altri soggetti, ma dopo la morte del fratello più grande Giuseppe, venderanno la proprietà nel 1766, che rimarrà parzialmente in mano ad altri Fabbri collaterali.
pietreMi fa un certo effetto pensare che tante generazioni di Fabbri sono passate di qui, e che in qualche modo anche io adesso l’ho fatto. I miei antenati, la mia casata, le mie radici, coloro che portavano il mio stesso cognome sono stati in questo luogo, e sì, fa davvero effetto pensare che che più di duecento anni dopo un loro discendente abbia rimesso piede negli stessi spazi. Questi grandi massi hanno una lunga storia da raccontare!

Il Bagno si presenta come una sorta di avamposto settentrionale di una foresta, il Parco delle Foreste Casentinesi, che si espande fino all’aretino e che tocca diversi paesi montani dell’Appennino. Nei documenti l’abitato è descritto come “una casa, con aia, forno, orto e resedi” e si può dedurre che nella sua struttura ben poco sia cambiato sin dalla sua creazione.
fiumeA pochi passi da lì corre il fiume che però porta un nome riduttivo: a me non sembra affatto un fosso, ma forse il nome si deve al fatto che è un affluente del fiume Tramazzo. Come se vedere quel casolare non mi fosse bastato, anche bagnare i piedi nelle acque del fosso Bagno è un’esperienza catartica. La natura, specie se carica di queste valenze ancestrali, di recupero dell’identità e della propria storia di origine, ha il suo modo di abbracciare e di far sentire a casa chi va a cercarla. Proprio come nelle altre zone abitate dai miei avi, anche qui ho l’impressione di trovarmi in un luogo che mi aspettava.

Divagazioni urbane

cittàL’altro giorno mi trovavo per caso a Bologna. Passeggiare per la città è un’esperienza che risveglia i sensi. Sembra un paradosso (specie per chi abita in città), perché spesso siamo abituati ad attribuire alle escursioni in montagna questo benefico influsso. In realtà io credo che ogni trasferta in luogo altro, in contesto insolito e comunque fuori dall’ordinario sia un “change of pace” come dicono gli inglesi, un cambio di passo, un cambio di ritmo.
 
Per chi vive in campagna, la città ha un suo fascino; per me è certamente così. Io che invece metto al primo posto la montagna come luogo ideale, mi ritrovo però in preda agli odori delle città. Sì, gli odori. Passeggiare per Bologna o per Firenze, o per Milano significa incrociare una mescolanza di odori di diversa natura. Essi non fanno che richiamare ricordi, di quando il mio frequentare la città era qualcosa di più quotidiano, di quando addirittura associavo alla città l’idea di casa.
L’odore del ragù che esce dalle finestre, la puzza di muffa di certe cantine, il profumo del pane appena sfornato, le brioche, sapore di caffè che si profonde e che scala i grattacieli. E la dolcezza dell’aroma dei vestiti appena lavati, che il vento accarezza ed in cui soffia del suo calore estivo. Tutto si mischia e viene a portare il suo carico di vita.
 
Ovviamente, ogni città offre il suo esclusivo misto di fragranze, ognuna a modo suo si presenta col suo biglietto da visita. Si passa dall’odore agli altri sensi senza accorgersene: in un istante appaiono chiese, sanpietrini, lampioni, ed essi chiamano voci, volti, emozioni tutte nascoste nelle pagine del tempo. A chi passeggia, a chi attraversa le vie della città ascoltando musica o restando in preda ai propri pensieri sfuggirà quell’esercizio che per me (e forse crescere in campagna ha favorito questa mia inclinazione all’immaginazione, alla conoscenza, al sapere) è sempre stato automatico. Un ambiente non esclude l’altro: la campagna e la montagna sono splendidamente anonime tanto quanto la città è splendidamente ricca di etichette e di segni lasciati da qualcuno. Qui è successa la tal cosa, lì l’altra. Lì ha vissuto il tale artista, là passò il tale studioso. Città e natura sono entrambi luoghi eterni, anche se in modi totalmente diversi.

Viaggio nei luoghi dimenticati: i Fondi di San Martino

IMG_5120Che ricercatore sarei se mi basassi solo sui documenti, senza trovarne prova nel territorio che studio? Ebbene, ho sempre avuto la curiosità di vedere dov’era nato il mio bisnonno Domenico Fabbri. La strada che porta al podere dove nacque mio nonno è comoda ed asfaltata, ma certo non si può dire lo stesso del casolare dove vide la luce suo padre, perché quel luogo si trova in una zona impervia ed abbandonata da almeno decine di anni. Appena scorgo il tetto di quella antica dimora, mi rendo conto della probabile origine del nome di quel podere: si trova molto più in basso di dove mi trovo io, non più in cima al monte ma nemmeno a fondo valle: a metà via. Ma che storia hanno questi terreni?

I Fondi di San Martino sono un podere relativamente giovane, a dire la verità. I documenti mi suggeriscono che l’edificazione risale al 1843, e che quello è il primo di una serie di casolari costruiti ex-novo in quel periodo. Il nome si deve all’antichissima chiesa di San Martino in Collina, una volta la più importante della zona, molto più di quella di San Cesario in Cesata, di cui divenne annesso, sino ad essere abbandonata nella prima metà dell’Ottocento. Quando i miei trisnonni Giovanni e Domenica Vespignani arrivano ai Fondi è il marzo 1859: hanno già avuto Francesco (3 anni e mezzo) e Giuseppe (quasi 2 anni) e qui nasceranno anche Fiora, Maria, Anna e, appunto, Domenico.

Il monte sul quale si trova l’edificio è sul versante che guarda alla vallata del torrente Acerreta, e si nota infatti il paesino di Lutirano in lontananza. Poco più su, sul crinale, basta guardare dall’altro versante e si scorge la vallata di Tredozio. Oggi se si imbocca la mulattiera che porta ai Fondi non si trovano altro che rovi e sterpaglie, e più ci si avvicina al vecchio rudere, più si incontrano sambuchi, edera, rovi di more e rose canine che sembrano voler occludere la vista e non permettere a nessuno di oltrepassarle. Non riesco ad avvicinarmi oltre, la zona è isolata. Fra l’altro l’inclinazione del monte non mi agevolerà affatto il percorso del ritorno, perché essendo la stradina occlusa, non mi resta che attraversare i campi in pendenza.
1868Forse la scomodità di quel fabbricato è stata una delle ragioni per le quali non c’è più nessuno ad abitarlo. I miei antenati lo abbandonarono in favore del Querceto nel 1880 (anche se, con molta probabilità, i trasferimenti dell’epoca non erano qualcosa che i mezzadri potevano decidere autonomamente, ma solo attraverso affari e compromessi con fattori e proprietari terrieri), un podere molto più facilmente raggiungibile che si trova a pochi passi dal fiume e che virtualmente si sarebbe potuto raggiungere persino proseguendo quella strada ormai in disuso che portava ai Fondi di San Martino.
Per un attimo ho immaginato ciò che oggi è solamente possibile percepire… la fatica di coltivare questi terreni pendenti, la presenza di alberi che non ci sono più, di sassi avvolti dall’erba, di colori diversi rispetto a quelli di metà Ottocento, cercando di capire cosa resta e cosa ormai non c’è più. Quando visito i luoghi delle origini del mio cognome, mi soddisfa sempre la splendida sensazione di aver riportato, anche solo per qualche minuto, un pò di Fabbri da quelle parti.

In nomen omen: i nomi più insoliti di qualche secolo fa

Studiando dati di registri del Seicento e Settecento (in questo caso la zona di riferimento è l’appennino tosco-romagnolo) mi è spesso capitato di imbattermi in nomi molto più che insoliti. In molti casi ho dovuto cercare riscontri nel web per verificare l’esistenza o meno di alcuni di essi, ed altre volte (pur essendoci una grafia chiara) sono portato a pensare che siano stati inventati di sana pianta. Ma vediamo a quali nomi mi riferisco ed ampliamo la selezione di queste categorie.

NOMI INSOLITI, MA RICONOSCIBILI: Iniziamo a passare in rassegna i nomi più insoliti che abbia mai rintracciato, partendo da quei nomi che, pur essendo insoliti, più o meno tutti abbiamo sentito pronunciare almeno una volta. Gaspare/Gaspero (usato per richiamare l’abbondanza e la ricchezza), Melchiorre e Baldassarre (come i tre Re magi). Ma anche Ippolito, Taddeo, Giacinto, Annibale, Faustina, Caledonia, Rinaldo, Bonaventura, Costanza, Diamante, Annunziata etc… Sono nomi che semplicemente oggi sono caduti in disuso, e la lista potrebbe essere ben più lunga. Ancor più riconoscibili e quasi contemporanei sono Lucia, Giovanni Battista, Francesco, etc…

NOMI DI ORIGINE MITOLOGICA: Tutta un’altra cosa è invece la sfera dei nomi derivanti dalla mitologia ellenica o romana. Polissena, Olimpia, Pantasilea, Callisto, Polidoro, Sabazio, etc… In questi casi l’imposizione di un nome di questa natura è legata ad una conoscenza della mitologia che solo i nobili o il clero potevano vantare all’epoca. Molto difficilmente una famiglia di contadini avrebbe assegnato di sua spontanea volontà un nome di questo tipo ai propri figli.

NOMI LEGATI A SANTI
: Non c’è dubbio. Fra quelli scoperti di recente devo mettere al primo posto quel nome che inizialmente sembrava essere “Trebista“, “Teosista“, “Tespista“. Una volta che ho capito che nessuna di queste opzioni poteva essere valida, è comparsa la soluzione: Teopista. Questo nome antico appartiene alla martire patrona della città di Matera, e deriva da théos e pístos (credente in Dio).
IMG_5044Si tratta di uno dei tanti nomi insoliti che appartengono a santi, beati e martiri della Chiesa Cattolica. Fra questi possiamo ricordare Trifone, Eustachio, Tecla, Crisostomo, Emerenziana, Atanasio, Gudelia, Eutimio, Cunegonda, Eutropio, Venceslao, e moltissimi altri. Si presume che nomi così insoliti siano legati al sapere ed al contesto di studio delle vite dei santi, perciò l’imposizione del nome si deve probabilmente all’istruzione dei genitori (Proprietari, conti, o comunque persone d’alto rango) o ad un suggerimento del parroco, che era infatti (oltre ai nobili del luogo) fra le persone più istruite dei vari paesini di campagna e montagna di quei secoli. Dedicati a Dio invece Amadio/Amedeo, Deodato, Teofilo, Donato/Donatello, Teodoro/a, etc…

NOMI DESCRITTIVI: Alcuni nomi sono invece legati alle circostanze della nascita del bambino. In particolare possono riferirsi al giorno o al mese di nascita: Sabatino, Domenico ma anche Agostino, Giulio, Gennaro, MarzioReparato o Reparata altro non indicano che un neonato nato a riparazione di un lutto recente, così come Benvenuto o Benvenuta potevano indicare una nascita inattesa (infatti spesso questo nome appartiene ad un gemello o ad una gemella).

Il mondo dei nomi è infinito. Ha una miriade di varianti ed è in costante evoluzione. Questi sono solo alcuni di quelli individuati e che fanno riflettere sulle diverse motivazioni che agiscono nella scelta di un nome. Quando cambia la società, allora anche i parametri di queste scelte si modificano nel tempo. La cesura fra la civiltà contadina ed il mondo moderno è chiaramente evidenziata nel periodo che va da metà Ottocento sino ad oggi. Lo spostamento delle persone ed il progresso in generale hanno favorito uno scambio di prospettive impensabile per gli antenati di coloro che, nel secolo scorso, già imponevano nomi “nuovi” ai propri figli. Per nomi nuovi intendo nomi che non sono né dettati dalle necessità sopraelencate né legati ad una tradizione famigliare o ad una popolarità locale (pensiamo come, oggi, i film o i personaggi famosi possano influenzare i nomi). Assieme al progresso sono giunte nuove idee, voglia di novità ed un arricchimento delle scelte nominali che, in qualche modo, rappresentano una rottura col passato.

Video

Il documentario "Ciò che resta del silenzio"

In attesa della pubblicazione del romanzo breve “Ciò che resta del silenzio” (prevista per il 5 giugno) ho lavorato ad un documentario di circa 12 minuti che illustra un pò la parte di ricerca genealogico-storica che ho portato avanti sulle mie origini. In particolare ho focalizzato la mia attenzione alle generazioni dei miei trisnonni, dei miei bisnonni e dei miei nonni. La voce narrante è la mia, affiancata da quella del figlio del cugino di mio nonno Lino, Armando Fabbri. Ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato a trovare tracce, documenti, testimonianze, foto.

Buona visione!